Discriminate, poco istruite, sole: parte da Venezia…

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Sono 43 milioni le donne nel mondo che lavorano nelle case degli altri. Le ricerche dicono che spesso si tratta di donne discriminate, povere, poco istruite, senza permesso di soggiorno o rifugiate, sole. Sulle loro condizioni di lavoro si è saputo molto poco fino agli anni Cinquanta: erano sostanzialmente delle ‘invisibili’. Poi, dall’Europa, per i lavoratori domestici (perlopiù donne, ma anche uomini e bambini) è iniziata un’era di riscatto culminata, nel 2011, nella Convenzione 189 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sulle condizioni dignitose nel lavoro domestico.

Molto è cambiato negli ultimi anni, da quando la globalizzazione è entrata anche nelle case. Il riconoscimento delle domestiche come vere e proprie lavoratrici ha fatto emergere le loro storie, i loro diritti e anche i dati che le riguardano. Un convegno (che si tiene da oggi, venerdi 17, a sabato 18 marzo a Ca’ Foscari Zattere) – e un progetto di ricerca chiamato DomEQUAL, finanziato da uno Starting Grant dello European Research Council e coordinato da Sabrina Marchetti, professoressa di Sociologia al Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali, mette sotto la lente il lavoro domestico in nove Paesi: oltre all’Italia Taiwan, Filippine, India, Ecuador, Colombia, Brasile, Spagna e Germania.

L’Italia è stata un Paese pioniere in questo campo – spiega Marchetti – Qui la prima legge sul lavoro domestico risale al 1958″. Eppure, sempre in Italia, restano ancora dei punti di mancata applicazione dei diritti riconosciuti alle lavoratrici degli altri settori: “I problemi maggiori riguardano le tutele della maternità e del primo anno di vita del bambino”, sottolinea Marchetti. Il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, ormai scaduto, potrebbe essere l’occasione per colmare alcune lacune.

Per il lavoro regolare, si intende: “In Italia si stima che lavorino con un contratto due persone per ogni irregolare. Il settore vale almeno 1,5 milioni di posti di lavoro fra pulizie, babysitter e badanti. Almeno l’85% è di origine straniera, e questo significa maggiore fragilità e rischio di isolamento, minore conoscenza delle leggi e dei diritti”. Spesso questo è il primo lavoro che si trova, “ma le opportunità di qualificazione sono poche ed è difficile cambiare mestiere. Uno sbocco possibile è nell’assistenza, per chi frequenta corsi specifici come quelli per operatore socio sanitario”.

Sempre i dati indicano che in Italia 12 milioni di famiglie impiegano una persona per lavoro di cura. Oltre all’impiego diretto, tramite conoscenze e passaparola, oggi è crescente il ruolo di agenzie interinali e cooperative sociali in questo segmento del mercato lavorativo.

«Nonostante il loro importante ruolo nella società, le lavoratrici domestiche generalmente operano in condizioni molto precarie, il salario è basso, svolgono mansioni pesanti fisicamente e psicologicamente, e non godono di adeguata protezione sociale – spiega la studiosa –. Tuttavia, qualcosa è cambiato nel corso dei decenni. La ricerca, a partire da questo simposio, ci permetterà di comprendere meglio come queste lavoratrici siano riuscite, nei vari contesti internazionali, a ottenere diritti e visibilità», conclude Marchetti. Per questo lavorerà un team di ricercatrici: in Italia, oltre alla coordinatrice Marchetti, altre tre esperte: Giulia Garofalo Geymonat, Anna Di Bartolomeo e Daniela Cherubini.