Intervento tenuto da Sabrina Marchetti in lingua inglese in occasione della conferenza internazionale dei e delle parlamentari intitolata The challenges of a world on the move: migration and gender equality, women’s agency and sustainable development che si è svolta il 4 e il 5 maggio 2017 a Roma, presso la Camera dei Deputati, nell’ambito del calendario della presidenza italiana G7. L’incontro, sostenuto e promosso dal Parlamento, è stato organizzato dal Gruppo di lavoro parlamentare “Salute globale e diritti delle donne”, in collaborazione con l’Associazione italiana donne per lo sviluppo (Aidos) e lo European Parliamentary Forum on Population & Development.
Immaginando il discorso che avrei fatto in occasione di questa conferenza ho pensato che il mio contributo da studiosa – da accademica femminista – avrebbe dovuto essere innanzitutto quello di sfidare quelle stesse ipotesi che inducono le domande che discutiamo oggi. Vale a dire: che cosa significa parlare di “genere” in relazione alle migrazioni? E quindi: in che modo le migrazioni sono connesse al ruolo attivo e all’empowerment delle donne?
Quando si pensa a cosa rappresenta il genere per le migrazioni, si rimane perplessi/e su quale sia il modo opportuno di far combaciare il vasto tema delle migrazioni con un altrettanto grande insieme di nozioni e concetti che si riferisco al tema del genere. Ciò andrebbe fatto, a mio avviso, in un’ottica trasformativa, ossia considerando come una prospettiva di genere possa cambiare effettivamente il nostro modo di pensare e comprendere il legame che intercorre tra migrazioni e globalizzazione. Significa anche capire come l’agency di donne e ragazze sia condizionata dalle migrazioni globali e chiedersi che tipo di trasformazione ne derivi in termini di potere e diseguaglianze.
La sovrapposizione tra questioni di genere, migrazioni e globalizzazione porta a un dibattito complesso, i cui termini chiave hanno molte definizioni diverse e dove i fatti vengono spesso interpretati in modi contrastanti.
Il mio suggerimento è di affrontare questa complessità distinguendo tra la dimensione quantitativa e quella qualitativa in cui il genere e le migrazioni globali entrano in relazione.
Le principali domande che ci pone solitamente a livello quantitativo sono: quante donne migrano? Quanti uomini? Come sono cambiati questi numeri nel tempo? L’elemento interessante qui è di solito il numero delle donne migranti, come questo sia in proporzione rispetto a quello degli uomini, le nazionalità coinvolte e, ancora più nel dettaglio, le destinazioni, le occupazioni, lo stato civile, ecc.
A questo livello si parla di “femminilizzazione delle migrazioni” per indicare l’aumento della percentuale delle donne nelle migrazioni internazionali.
Tuttavia, queste percentuali possono risultare deludenti per coloro che si chiedono cosa ci sia di nuovo nella migrazione delle donne in sé. Le donne sono infatti sempre migrate in numero significativo, soprattutto negli spostamenti dalle campagne alle città, nelle migrazioni temporanee e circolari, e in alcune regioni del mondo più che in altre.
La novità però è di un altro tipo: nelle migrazioni di lunga distanza, le donne sempre di più si spostano da sole o come ‘primomigranti’, per motivi di lavoro e con la funzione di breadwinner per le loro famiglie. In altre parole, si inseriscono sempre più in modelli migratori tradizionalmente connotati come di tipo maschile.
Per questo motivo è importante che gli approcci di tipo quantitativo alle migrazioni non si limitino a chiedersi quante sono le donne che migrano, ma vadano oltre, domandandosi a quale distanza le donne arrivano, se migrano da sole o seguono i loro mariti o altri uomini, e qual è lo scopo della loro migrazione (se il ricongiungimento, il lavoro, le rimesse, ecc.).
Tenere conto di questo ci spinge verso la seconda dimensione della relazione che coinvolge genere e migrazioni.
La dimensione qualitativa della femminilizzazione delle migrazioni deriva da una visione più complessa del genere come insieme di norme e princìpi che regolano la vita delle persone lungo due modelli opposti – maschile e femminile – socialmente e culturalmente costruiti.
Sebbene spesso percepiti come inevitabili e naturali, i modelli di genere sono invece terreno di continue negoziazioni volte a stabilire qual è il comportamento adeguato per un uomo o per una donna, cosa ci si aspetta da loro, qual è il loro ruolo all’interno della famiglia e nella società. I modelli di genere, a seconda del contesto, influenzano l’agency di donne e ragazze e il significato delle loro migrazioni.
Ad esempio, se si parte da un contesto di ruoli tradizionali, si può notare come spesso le donne si emancipino da questi proprio attraverso il processo migratorio, come nel caso delle migranti che diventano breadwinner.
Tuttavia, sappiamo che la migrazione può anche rivelare una dimensione regressiva, riproducendo – o addirittura peggiorando – le aspettative basate sui ruoli di genere tradizionali.
In questo caso c’è da chiedersi: in che modo le migrazioni modificano i ruoli di genere e come le aspettative di genere influenzano le esperienze dei migranti? E ancora, come influisce la migrazione sulla negoziazione dei doveri, delle aspettative, delle possibilità e delle opportunità per le donne durante la loro esperienza migratoria?
Questioni che ci conducono a una domanda ancora più essenziale che, parafrasando Susan Moller Okin (1999), potremmo sintetizzare così: la migrazione fa bene alle donne?
Alcune ricerche guardano positivamente alla migrazione come un’opportunità per sfuggire a matrimoni oppressivi, guadagnarsi un’indipendenza economica, migliorare la propria posizione sociale rispetto al contesto d’origine, di solito contribuendo con le rimesse e con interventi mirati al benessere delle famiglie e allo sviluppo delle comunità locali.
Altre considerano la migrazione come una fonte di vulnerabilità, soprattutto per le donne. In questo caso l’accento viene posto sui pericoli che le migranti possono incontrare durante il viaggio, esponendosi a violenze sessuali, gravidanze indesiderate e al rischio di entrare forzatamente nei circuiti della prostituzione e del lavoro servile.
Come ha detto ieri Camille Schmoll le donne e le ragazze migranti sono maggiormente a rischio di violenza fisica e psicologica rispetto agli uomini, soprattutto quando la loro migrazione avviene attraverso matrimoni forzati o quando le donne lasciano i loro paesi come rifugiate.
Non si può non tener conto, inoltre, di come anche una interpretazione positiva della migrazione come possibilità di acquisizione di potere economico di donne migranti breadwinners sia messa in dubbio da studi che mostrano come persino l’invio delle rimesse possa essere vissuto come un obbligo e come causa di sofferenza e deprivazione personale, un dovere a cui spesso gli uomini più facilmente riescono a sottrarsi.
Parlando di vulnerabilità legata alla migrazione delle donne, non possiamo trascurare il fatto che, tra i migranti, sono proprio le donne e le ragazze ad essere impiegate più spesso nel settore dei cosiddetti lavori 3D: dangerous, demanding and demeaning (pericolosi, impegnativi e degradanti). Tra questi, ci sono anche i lavori di cura e il lavoro domestico e sessuale, la cui importanza per l’occupazione di tutte le donne, e non solo delle migranti, è ampiamente riconosciuta.
Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro le persone che lavorano nel settore domestico svolgendo lavori di pulizia o di cura sono 67,1 milioni (ILO, 2015). Il 73% di questi sono donne o ragazze, uno su sei è un migrante.
Nonostante ciò, le condizioni di chi lavora nel settore domestico e di cura, in particolare, sono negativamente influenzate dalle politiche migratorie esistenti, che rendono difficile una regolare occupazione per i migranti.
Nel caso di chi lavora nel settore domestico, consideriamo anche solo semplicemente come questo lavoro non sia valido per il rilascio di un permesso di soggiorno in molti paesi europei (Germania, Austria, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, Polonia, Regno Unito, per citarne alcuni). Nei paesi in cui ai lavoratori domestici è consentito un permesso di soggiorno, questo è estremamente difficile da ottenere e c’è un gran numero di donne che lavorano senza contratto e senza permesso di soggiorno.
Questo – tristemente – significa che nonostante ci sia una grande richiesta da parte delle famiglie europee di addetti/e alle pulizie, baby-sitter, assistenti per anziani, la maggior parte dei paesi europei non riconosce alcun diritto alle donne migranti che fanno questo lavoro.
Il triste paradosso è quello di vedere una delle figure-pilastro della nostra società – specialmente alla luce dello smantellamento del welfare nell’Europa occidentale – essere costretta a una condizione di vulnerabilità che ne riduce drasticamente la propria agency in termini di libertà e autodeterminazione.
Per questo è così importante che il Parlamento europeo lo scorso anno abbia adottato una Risoluzione sui diritti delle persone che lavorano nel settore domestico e di cura. Allo stesso modo è importante menzionare la Convenzione sui diritti delle persone che lavorano nel settore domesticoadottata dall’ILO nel 2011 e che finora è stata ratificata solo da 23 paesi. Entrambe le misure dovrebbero favorire maggiori diritti e consapevolezza sulle condizioni delle lavoratrici domestiche nel mondo, che sono donne e ragazze migranti.
Permettetemi quindi di concludere sottolineando l’urgenza di definire le condizioni, nel mercato del lavoro e nelle politiche migratorie ad esso connesse, necessarie affinché le donne migranti abbiano gli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori, di tutti gli altri migranti. Vuol dire assumere uno sguardo trasformativo nel considerare la relazione tra genere e migrazioni e fare in modo che il genere non sia più motivo di ulteriori oppressioni e discriminazioni per le migranti, ma che diventi un’opportunità di ricchezza e diversità.